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RKC Mayapur
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Inserito il - 09/01/2006 : 00:28:17
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Hare Krishna a tutti, riportiamo qui la prefazione del libro "ARCHEOLOGIA PROIBITA - Quello che la scienza preferisce ignorare. Scoperte, tradizione, establishment accademico" di Michael A. Cremo (Drutakarma das), per rispondere alle numerose persone che ci chiedono se ci sia qualche prova scientifica dell'esistenza della cultura vedica, diffusa dall'associazione internazionale per la coscienza di Krishna.
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"Questo testo trae ispirazione da quanto riportano le antiche fonti sanscrite dell'India, generalmente indicate come "Veda" o "letteratura vedica". Fra gli scritti vedici tradizionali abbiamo i "Purana" o "storie", che raccontano della nascita e dello sviluppo della vita e della civiltà umana sul nostro pianeta in un ciclico corso e ricorso di centinaia di milioni di anni. L'unità base di tali cicli epocali è chiamata "il Giorno di Brahma", dal nome della omonima divinità indù, la cui durata è 4,3 miliardi di anni.
Il "Giorno di Brahma" è seguito da una "Notte di Brahma", che dura altrettanto. Alla Notte segue un Giorno, in una successione senza fine. Durante il Giorno la vita, inclusa quella umana, si manifesta nell'universo, ma ciò non avviene durante la Notte. In base agli antichi calendari sanscriti, oggi dovremmo trovarci da circa 2 miliardi di anni nell'attuale Giorno di Brahma. L'archeologia vedica si attenderebbe dunque di trovare tracce di vita umana già circa 2 miliardi di anni fa. Il perché è presto detto. Le storie dei Veda ci parlano anche di uomini-scimmia. L'idea di uomini-scimmia non è dunque stata inventata dagli scienziati europei del XIX secolo, dal momento che già migliaia di anni fa i saggi che redassero i Veda ne fecero specifica menzione. Però secondo loro con questi esseri coesistevano anche uomini come noi e dunque l'uomo non discenderebbe dalla scimmia, bensì avrebbe convissuto con tali creature addirittura per centinaia di milioni di anni.
I concetti sulla evoluzione e la storia umana di cui sopra sono in ogni caso necessariamente diversi da quelli che abbiamo ricevuto da Charles Darwin e dai suoi moderni seguaci. Il Darwinismo è tuttora in auge nell'ambito della scienza moderna, ma oggi le critiche non mancano, quantunque tale teoria suoni estremamente convincente.
I Darwinisti ritengono che la vita abbia avuto inizio su questo pianeta circa 2 miliardi di anni fa, data indiscussa considerata la più remota per l'apparizione delle sue prime forme sulla Terra. Tali indizi si riferiscono ai fossili di piccole creature unicellulari, sul tipo delle odierne alghe. La loro età corrisponde, sorprendentemente, proprio all'inizio dell'attuale "Giorno di Brahma".
I Darwinisti sostengono altresì che le prime scimmie si manifestarono circa 40 milioni di anni fa, i primi uomini-scimmia fra i 5 e i 6 milioni di anni fa, e i primi esseri umani simili a noi circa 100.000 anni fa; inoltre affermano che le scoperte di varie prove fisiche a supporto di ciò finora registrate dagli scienziati confermano totalmente tali ipotesi. In realtà, quando con Richard Thompson ho deciso di affrontare una analisi approfondita di tutti i riscontri a livello paleontologico ed archeologico relativi all'intero vasto lasso di tempo degli ultimi due miliardi di anni, è emerso che, nonostante l'opinione attualmente dominante, l'apparente presenza umana si manifesta ben al di fuori degli schemi indicati dal Darwinismo.
Di tutto ciò ci siamo occupati, con tutte le fonti e documentazioni relative, nel nostro corposo best-seller internazionale, tradotto in varie lingue, "Forbidden Archaeology: the hidden history of the human race" (Trad. it. parziale: Archeologia proibita: la storia segreta della razza umana, Gruppo Edit. Futura, Milano 1998) e nel successivo volume "Forbidden Archaeology’s impact". A questo punto ci si chiederà per quale ragione, se i dati da noi raccolti e divulgati mostrano quanto detto, non se ne senta allora parlare.
La ragione di ciò è dovuta ad un inevitabile e pressoché naturale processo di "filtraggio della conoscenza" da parte del moderno mondo scientifico, ieri come oggi. In altri termini, è come se il mondo accademico, da sempre e per definizione istituzionale e conservatore, costituisse un vero e proprio "filtro" per le idee e le scoperte scientifiche nuove. Nella misura in cui si conformi a tale "filtro", che risulta necessariamente e "fisiologicamente" formato da concetti "fissi" e "tradizionali", qualsiasi nuovo elemento è destinato a "passare" con maggiore o minore rapidità senza eccessivi problemi, e verrà così facilmente inserito in libri di testo, discusso dagli scienziati ed esibito nei musei. Ma se un dato non si adatta al "filtro" con tutto il suo contesto di idee fisse, esso verrà allora per forza di cose contrastato, rigettato, dimenticato, ignorato e magari perfino soppresso a bella posta. E non lo vedrete mai menzionato in testi accademici, oggetto di conferenze o dibattiti a livello scientifico e tanto meno inserito nel patrimonio museale (anche se potrebbe rimanervi sepolto e ignorato nei magazzini con i tanti "pezzi" non destinati ad essere esibiti in quanto dichiarati "di minore importanza" e di cui nessuno sa né saprà così mai nulla). In campo archeologico, tale particolare processo di "filtraggio della conoscenza" sta andando avanti in questi termini da almeno 150 anni, come anche solo pochi esempi varranno a dimostrare.
Alcuni risalgono all'archeologia di ieri, altri a quella di oggi. Un caso che merita di essere ricordato risale al XIX secolo, e precisamente alla famosa "corsa all'oro" che richiamò in California gente in cerca di fortuna da tutto il mondo.
Per estrarre l’oro, i minatori scavavano gallerie nelle pendici delle montagne, penetrando nella viva roccia. Ma veniamo a Table Mountain, nella regione delle miniere d’oro della California. Qui i cercatori d’oro, scavando a centinaia di metri di profondità, si imbatterono in numerosi scheletri umani antichi non dissimili dai nostri, e non certo in resti di uomini-scimmia. Così pure furono trovati strumenti ed armi di pietra a centinaia, in diverse zone dello stesso sito. Fra di essi un pesto ed un mortaio, non molto diversi da quelli oggi noti. Solo che c’era un problema. Entrambi gli oggetti furono trovati in strati rocciosi corrispondenti alla parte inferiore del periodo geologico chiamato Eocene, proprio di 50 milioni di anni fa.
Un archeologo che accettasse le concezioni vediche non sarebbe affatto sorpreso di rilevare tracce umane in quell’epoca, naturalmente, in quanto si attenderebbe di trovarne ben prima, fino forse a circa 2 miliardi di anni or sono. Ma per un normale archeologo tutto ciò è contraddittorio e inconcepibile, riferendosi ciò ad un’epoca anteriore alla comparsa delle scimmie e dei primi antropoidi.
Le scoperte sopra ricordate nelle miniere d’oro della California furono segnalate al mondo scientifico dal Dr. J. D. Whitney, un geologo statale californiano.
Egli scrisse un documentatissimo e corposo volume su tali scoperte, che fu anche pubblicato dall’Università americana di Harvard nel 1880. Ciò nonostante nessuno parla più oggi di quei dati, in conseguenza del processo di "filtraggio della conoscenza" di cui abbiamo accennato.
Lo scienziato responsabile di tale "filtraggio" conoscitivo fu, nel caso specifico, il Dr. William B. Holmes, un influente antropologo della "Smithsonian Institution" di Washington, D.C., che al riguardo dichiarò testualmente, con sorprendente sincerità: "Se il Dr. Whitney avesse compreso la teoria dell’evoluzione umana come è oggi accettata, egli avrebbe esitato ad annunciare le sue conclusioni, a dispetto dell’imponente contesto testimoniale con cui si è confrontato".
In altri termini, se i fatti non si adattano alla teoria dell’evoluzione umana indicata da Darwin, essi vanno messi da parte e la persona che li riferisse o sostenesse va screditata.
Esattamente quello che è avvenuto e tuttora avviene.
Ho anche avuto una mia esperienza personale nel processo di "filtraggio della conoscenza" in rapporto alle scoperte nelle miniere d’oro californiane. Alcuni anni or sono, infatti, operavo come consulente di un programma televisivo sulle "Misteriose Origini dell’Uomo" ("The Mysterious Origins of Man") realizzato dalla NBC, la più popolare rete TV degli USA, e presentato da un testimonial d’eccezione, il famoso attore hollywoodiano Charlton Heston. La maggior parte degli americani considerano le parole di questo attore-presentatore - inamovibile nell’immaginario collettivo del pubblico dal ruolo profetico-sacrale proprio del suo Mosè ne "I Dieci Comandamenti" di Cecil De Mille - allo stesso livello di quelle che potrebbe indirizzarci Dio stesso.
Durante le riprese del programma, raccomandai ai produttori di recarsi al Museo di Storia Naturale dell’Università della California a Berkeley in quanto in esso si trovavano i manufatti di 50 milioni di anni fa estratti dalle miniere d’oro californiane. Ma i responsabili del Museo rifiutarono di concedere il permesso di filmare tali manufatti. Ciò nonostante, fummo egualmente in grado di utilizzare ed esibire alcune delle vecchie fotografie scattate nel XIX secolo. Si ricordi inoltre che gli scienziati darwinisti americani hanno fatto pressioni di ogni mezzo sulla NBC perché il programma non fosse mandato in onda, fortunatamente senza riuscirci.
È significativo che la NBC abbia poi pubblicizzato la trasmissione rivolgendosi agli americani con lo slogan: "Guardate il programma che gli scienziati non vogliono che vediate!".
Adesso consideriamo un caso più recente nella storia dell’archeologia. Nel 1979, Mary Leakey trovò dozzine di impronte in una località dell’Africa Orientale chiamata Laetoli, in Tanzania. La scienziata dichiarò anche che esse non potevano essere distinte da quelle lasciate dai piedi di essere umani odierni, solo che esse si trovavano in strati costituiti da ceneri vulcaniche solidificate di 3.700.000 anni fa: un’epoca in cui, secondo le concezioni scientifiche attuali, uomini in grado di lasciarle non avrebbero dovuto esistere. Come darne ragione, allora? Gli scienziati, a questo punto, si sono limitati ad ipotizzare che 3.700.000 anni fa abbia necessariamente dovuto esistere in Africa "un qualche tipo di uomo-scimmia con i piedi fatti come i nostri", e che ciò sia all’origine di tali impronte. La proposta è interessante, ma è totalmente priva di qualsivoglia elemento di prova a livello scientifico. Anche perché gli scienziati hanno già da tempo a disposizione gli scheletri di un uomo-scimmia vissuto 3.700.000 anni or sono in Africa Orientale, il cosiddetto "Australopiteco".
E la struttura del piede di un Australopiteco si differenzia nettamente da quella dell’uomo d’oggi. La questione venne fuori nel 1999, quando partecipai al Congresso Archeologico Mondiale di Cape Town, in Sud Africa. Fra gli oratori figurava anche Ron Clarke, che nel 1998 aveva scoperto uno scheletro praticamente completo di Australopiteco in località Sterkfontein, in Sud Africa. Tale scoperta era stata ampiamente pubblicizzata sui media di tutto il mondo come "il più antico antenato dell’uomo". L’esemplare era in effetti vecchio di 3.700.000 anni, come le impronte di Laetoli. Ma c’era un problema.
Ron Clarke, infatti, ricostruì i piedi del suo Australopiteco di Sterkfontein in termini scimmieschi; e su questo niente da dire, visto che le ossa delle estremità inferiori della creatura erano decisamente scimmieschi. Per esempio, si vede che l’alluce è molto allungato e proteso lateralmente, sul tipo del pollice di una mano umana; ma così pure che anche le altre dita sono decisamente allungate, di almeno una volta e mezzo in più rispetto al piede dell’uomo. Pertanto tale piede non presentava certo caratteristiche umane. Di conseguenza, dopo che Clarke ebbe presentato la sua relazione congressuale, alzai la mano e gli posi direttamente una domanda: "Perché mai la struttura del piede dell’Australopiteco di Sterkfontein non corrisponde alle impronte scoperte da Mary Leakey a Laetoli, che sono contemporanee (3.700.000 di anni fa) e simili a quelle lasciate dall’uomo moderno?"
La risposta non era facile. Ron Clarke sosteneva di avere scoperto il più antico antenato dell’uomo, eppure esseri apparentemente come noi andavano in giro in Africa nella stessa epoca. Sapete come ha risposto? Egli sostenne che era stato proprio il "suo" Australopiteco a lasciare in effetti le impronte di Laetoli, solo che, per giustificare le caratteristiche di queste ultime, si doveva allora ritenere che camminando dovesse spostare l’alluce tutto a ridosso delle altre quattro dita del piede, con queste tutte ripiegate su loro stesse: insomma, era un po’ come se un acrobata che volesse procedere eretto ma reggendosi sugli arti superiori camminasse sui pugni invece che sulle mani!
Non c’è neanche bisogno di dire che tale spiegazione era ed è del tutto risibile, e che io risi, infatti. Ma la platea, composta da una grande maggioranza di archeologi accademici di impostazione evoluzionista, si guardò bene dal farlo, in un silenzio totale. Le regole di comportamento dell’Establishment scientifico dominante sono e restano ferree. Quando poi gli scienziati finiscono con lo scoprire "qualcosa che non deve essere scoperto", possono soffrirne non poco a livello professionale. È il caso della Dott.sa Virginia Steen-McIntyre, una geologa americana che conosco personalmente.
Nei primi anni Settanta, alcuni archeologi statunitensi scoprirono alcuni strumenti ed armi in pietra in località Hueyatlaco, in Messico. Fra questi reperti figuravano punte di freccia e di lancia. Era chiaro fin dall’inizio per gli archeologi che le avevano scoperte che tali armi erano state usate da uomini come noi, e non certo da uomini-scimmia. Ma a che epoca risalivano esattamente? In genere in questi casi la risposta la danno i geologi, in funzione degli strati geologici in cui sono i reperti. Nel caso specifico fu coinvolta Virginia Steen-McIntyre che, utilizzando i quattro più recenti metodi di datazione geologica con i colleghi dello "United States Geological Survey", determinò che gli strati in cui si trovavano i reperti risalivano a 300.000 anni fa!
Quando il dato fu comunicato al capo degli archeologi, la sua risposta fu immediata quanto seccata ed incredula: "Impossibile! Non esistevano uomini 300.000 anni or sono in nessun luogo del mondo!". Quanto al Nord America, le odierne teorie indicano la comparsa dell’uomo non prima di 30.000 anni a. C., com’è noto. E allora cosa fecero gli archeologi?
In primis, rifiutarono di pubblicare la data di 300.000 anni fa. In secundis, vi sostituirono invece una datazione più "logica": 20.000 anni or sono. Ciò in quanto un pezzo di conchiglia rinvenuto a ben 5 chilometri dal sito in cui i reperti furono rinvenuti aveva fornito una datazione al Carbonio 14 riferita, appunto, a 20.000 anni fa!
Ma la Dott.sa Virginia Steen-McIntyre non si dette per vinta, ribadendo i dati rilevati. Solo che ciò le comportò una pessima reputazione a livello professionale nonché la perdita dell’insegnamento universitario, mentre tutte le possibilità di avanzamento acquisite con la sua precedente attività presso l’"United States Geological Survey" furono bloccate. La scienziata ne fu così disgustata che si ritirò in una cittadina delle Montagne Rocciose, in Colorado, rimanendo in silenzio per anni. Finché io non venni a sapere del suo caso e lo menzionai in , "Forbidden Archaeology: the hidden history of the human race", conferendo al suo lavoro l’attenzione che merita. È anche grazie a ciò che oggi il sito di Hueyatlaco in Messico viene studiato da archeologi dalla mente più aperta, e c’è da sperare che le conclusioni della Steen-McIntyre trovino presto ulteriore conferma.
Ma veniamo all’Italia. Alla fine del XIX secolo (1880) il geologo Giuseppe Ragazzoni rinvenne a Castenedolo, nel Bresciano, un cranio umano anatomicamente moderno, unitamente ai resti scheletrici di altre quattro persone. Il tutto si trovava in strati geologici corrispondenti ad un’epoca di 5 milioni di anni fa, ed era logico che la cosa apparisse inconcepibile.
"Nulla di misterioso" direbbero all’unisono gli scienziati darwinisti. "Solo qualche migliaio di anni fa qualcuno morì, e i suoi contemporanei ritennero di dover scavargli una tomba molto profonda in fondo ala quale collocarono il corpo che, così inserito in strati di ben maggiore antichità, sembra oggi appartenere ad un’epoca che viceversa non gli è propria". Tutto chiaro, dunque?
Non proprio. Un fatto simile, definito una "sepoltura intrusiva", può in effetti verificarsi. Ma nel caso specifico Ragazzoni, un geologo professionista, era ben consapevole di tale possibilità. "Se si fosse trattato di una sepoltura - dichiarò - gli strati superiori a quelli in cui il corpo è stato rinvenuto sarebbero stati anche solo parzialmente alterati o comunque disturbati dall’interramento del corpo in profondità". E le sue verifiche avevano escluso ciò, a conferma che gli scheletri risalivano davvero agli strati rocciosi in cui erano stati rinvenuti, ossia 5 milioni di anni fa.
Spostiamoci adesso in Belgio. All’inizio nel XX secolo il geologo A. Rutot fece una serie di interessanti scoperte in quel paese. Egli infatti portò alla luce centinaia di strumenti ed armi in pietra, estraendoli da strati rocciosi corrispondenti a 30 milioni di anni fa. Ho sopra detto della difficoltà invariabilmente manifestatasi qualora si richieda di vedere oggetti "scomodi" per l’Establishment accademico in relazione ai ritrovamenti della fine del XIX secolo in California. Stavolta però a me fu possibile vedere e anche fotografare i reperti recuperati da Rutot, durante un giro di conferenze in Olanda e Belgio.
A Bruxelles chiesi infatti ad un mio accompagnatore di visitare al Museo Reale di Scienze Naturali la collezione di Rutot e, sebbene i responsabili del museo avessero negato la sua esistenza, alla fine saltò fuori un archeologo che sapeva di cosa stavamo parlando e ci indicò i pezzi in questione. Non c’è neanche bisogno di dire che però essi non sono visibili al pubblico.
Di quanto bisogna risalire nel tempo per citare casi simili? Nel dicembre del 1862, ad esempio, negli Stati Uniti un giornale scientifico chiamato "The Geologist" riferì della scoperta di uno scheletro umano completo ed anatomicamente moderno a 30 metri di profondità nella Macoupin Country, in Illinois, USA. In base al resoconto scientifico agli atti, direttamente al di sopra dello scheletro vi era uno strato roccioso continuo ed inalterato dello spessore di più di un metro, esteso orizzontalmente in tutte le direzioni per vari metri tutt’intorno, Cosa, questa, che esclude necessariamente qualunque possibilità di una sepoltura intrusiva. Solo che, secondo i resoconti geologici del caso, gli strati che inglobavano lo scheletro risalgono a 300 milioni di anni: un dato totalmente impossibile per l’archeologia ortodossa. 300 milioni di anni fa corrispondono ad un’epoca anteriore alla comparsa dei dinosauri sulla Terra.
Si tenga presente che tutto quello che abbiamo finora menzionato è stato effettuato e riscontrato da scienziati professionisti, ovvero debitamente riportato nella letteratura scientifica professionale ed accademica. Ma è altresì logico che se ritrovamenti e scoperte "controcorrente" del genere hanno riguardato, come abbiamo visto, non pochi esponenti della scienza ufficiale, è così pure altrettanto possibile che abbiano spesso coinvolto anche persone al di fuori dell’ambito scientifico, ovvero gente comune. E le segnalazioni di costoro, seppur non riferite da riviste scientifiche, possono in effetti apparire anche nelle pagine dei giornali di informazione e di costume e nella stampa popolare. E non per questo sono meno vere.
A livello esemplificativo riferisco un resoconto giornalistico estratto dal "Morrisonville Times", un piccolo quotidiano locale edito nella cittadina di Morrisonville, in Illinois, nel 1892. Esso riferisce di una donna che stava mettendo dei pezzi di carbone nella sua stufa "fin de siecle". Uno di tali pezzi si spezzò improvvisamente in due e dal suo interno emerse una catena d’oro.
Alle due estremità erano rimasti attaccati i due pezzi del blocco di carbone, a dimostrazione che la catena era contenuta all’interno del pezzo successivamente divisosi. In seguito alle indicazioni fornite dal giornali, siamo riusciti a risalire alla miniera da cui era stato estratto.
E successivi riscontri effettuati oggi presso il "Geological Survey", dello Stato dell’Illinois indicarono che il carbone ivi estratto è vecchio di 300 milioni di anni. Per inciso, la stessa epoca del sopra citato scheletro umano rinvenuto poco più di trenta anni prima, sempre in Illinois, nella Macoupin County. Se vogliamo tornare alla letteratura strettamente scientifica, la "Scientific American" riferì nel 1852 di un bel vaso metallico estratto da un massiccio strato roccioso di 5 metri di profondità nella zona di Boston. Orbene, secondo i resoconti geologici attuali l’età della roccia in quella località è di 500 milioni di anni! Gli oggetti più antichi che ho incontrato nella mia ricerca sono comunque delle sfere metalliche rinvenute dell’ultimo ventennio dai minatori a Ottosdalin, nella regione del Transvaal Occidentale, in Sud Africa. Sono oggetti del diametro variabile da 1 a 2 centimetri e presentano dei curiosi solchi paralleli lungo il loro "equatore".
Le sfere sono state esaminate da esperti in metallurgia prima di essere filmate per il già citato programma TV "The Mysterious Origins of Man", e il loro parere è stato concorde: non esiste spiegazione per giustificare una formazione naturale dei solchi e, dunque, le sfere appaiono il prodotto di una qualche tecnologia intelligente. Fatto è che provengono da un deposito minerario geologicamente vecchio di oltre 2 miliardi di anni!
Potrei continuare a lungo, riferendo a piacere innumerevoli dati citati nel mio volume "Forbidden Archaeology: the hidden history of the human race" e nel suo seguito " volume "Forbidden Archaeology’s impact". Ma a questo punto è meglio fermarsi.
Vorrei concludere però con un’ultima considerazione. È stato ossessivamente sostenuto e monotonamente ripetuto dai Darwinisti che tutte le prove fisiche raccolte a tutt’oggi sono assolutamente coerenti con il loro quadro sulle origini dell’Uomo, per il quale esseri simili a noi sono apparsi circa 100.000 anni fa, dopo una graduale evoluzione dalle scimmie antropoidi. Tutto considerato, oggi si deve invece dire che tale affermazione va ritenuta del tutto falsa e fuorviante.
Per incredibile che possa sembrare, esistono infatti molteplici scoperte che suggeriscono inequivocabilmente la presenza di esseri apparentemente simili a noi in periodi cronologici compresi fra i 100.000 e i 2 miliardi di anni fa. Il che non è affatto incoerente con le fonti vediche di cui abbiamo parlato, con buona pace di un Establishment scientifico conservatore e miope timoroso di perdere le certezze sulle quali ha costruito il proprio potere accademico.
Non sarà mai tardi quando gli scienziati della nostra epoca, dominati da un’arroganza antiscientifica, comprenderanno che la Tradizione, probabile eredità di conquiste scientifiche acquisite in un passato senza ricordo, va considerata con maggiore rispetto ed attenzione. "Nihil su sole novi", dicevano giustamente i Latini". (Michael A. Cremo - Drutakarma das)
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Riferimenti bibliografici e biografici sull'autore potete trovarli qui (in inglese): http://www.mcremo.com/
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RKC Mayapur
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Inserito il - 09/01/2006 : 00:38:36
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Questa e' una sintesi di alcuni casi trattati nel libro (da una recensione di Alberto Barelli, fonte: http://itis.volta.alessandria.it/episteme/ep3-22.htm )
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Isola di Manitoulin (lago Hurona, America Settentrionale), anni Cinquanta. Nel corso di una campagna di scavi condotta da Thomas E. Lee, del Museo Nazionale del Canada, vengono rinvenuti nei depositi glaciali di Sheguiandah degli "utensili sofisticati in pietra". L'analisi del materiale, porterà il geologo John Sanford, della Wayne State University, ad ipotizzare per i reperti un'età compresa tra i 65 mila e i 125 mila anni1. Una datazione straordinaria, tale, se confermata, da rimettere in discussione i principi dell'archeologia ufficiale! Come sottolinea Michael Cremo, commentando il caso in questione nell'introduzione al volume scritto assieme a Richard L. Thompson2, secondo le teorie ufficiali, gli esseri umani sarebbero apparsi la prima volta nel Nord America - raggiungendo il continente dalla Siberia - soltanto 12 mila anni fa! In pratica, si tratterebbe di "ritoccare" le datazioni ufficiali anche di ben cento mila anni!
Se le implicazioni legate ad uno scenario del genere sono ben immaginabili, quello di Sheguiandah non è che uno dei tantissimi casi "incredibili", e certo non il più clamoroso, dei quali nel libro di Cremo e Thompson viene offerta una raccolta imponente, frutto di otto anni di ricerche. Una lunga rassegna di scoperte "impossibili", rinvenimenti inspiegabili, venuti alla luce dal XIX secolo ad oggi, che non solo pongono seri interrogativi sulle datazioni ortodosse, ma rispetto ai quali vengono a vacillare appunto le fondamenta stesse dell'archeologia, oltre che, per esempio, della paleontologia.
Soprattutto, quale filo conduttore dell'intera opera, emerge una denuncia della parzialità e del dogmatismo della scienza ufficiale, che avrebbe costruito le proprie certezze ignorando ogni scoperta contrastante con le ipotesi approvate e denigrando e isolando ogni ricercatore promotore di teorie alternative o soltanto "colpevole" di essere disposto a prendere in esame dati "imbarazzanti".
Ci è sembrato interessante proporre il caso di Sheguiandah fin dalle prime righe di questa recensione - che, essendo tanto più proposta da chi non può vantare alcuna competenza in materia, vuole avere come unico obiettivo quello di invitare alla lettura di un libro certamente "scomodo" - perché appare emblematico per i retroscena e per lo stesso "finale" della storia. Per i quali, meritano di essere riportati per intero i seguenti brani dal testo:
"Lo scopritore dell'insediamento fu cacciato dalla sua posizione nel Servizio Civile e per molto tempo gli venne rifiutato qualsiasi lavoro; i canali di pubblicazione letteraria furono tagliati; e le prove furono distorte da diversi famosi scrittori...; le tonnellate di reperti svanirono nei bidoni usati come deposito del Museo Nazionale del Canada; per essersi rifiutato di licenziare lo scopritore, lo stesso direttore del Museo Nazionale, che aveva proposto di far pubblicare una monografia sui reperti, fu licenziato dal governo; il prestigio e il potere dei funzionari ufficiali furono ampiamente utilizzati per entrare in possesso dei sei reperti di Sheguiandah che non erano stati destinati al Museo, e il luogo dell'insediamento è stato trasformato in una località turistica...".
"Sheguiandah" - queste le eloquenti parole conclusive - "avrebbe costretto i bramini dell'antropologia a confessare di non essere onniscienti. E avrebbe necessariamente portato a riscrivere quasi tutti i libri presenti sul mercato. Doveva essere eliminato. Ed è stato distrutto".
La rassegna dei casi "inspiegabili", per molti dei quali peraltro è stata definitivamente cancellata ogni prova, è impressionante. E se sulla valutazione di reperti come orme o ossa e sulla relativa datazione si possono in effetti registrare valutazioni discordanti, se per tanti singoli casi si sono scontrati pareri diversi ed opposti, certo si rimane sconcertati di fronte alla notizia del ritrovamento - avvenuto nelle miniere del Sud Africa - di centinaia di sfere di metallo in un deposito minerale del Precambriano datato 2,8 milioni di anni, o delle statuette di argilla rinvenute nell'Idaho o in Europa in giacimenti di milioni di anni fa! Tra i reperti "impossibili", troviamo il muro di mattoni rinvenuto in una miniera durante l'estrazione di carbone risalente al Carbonifero (1928, Texas), tubi metallici in formazioni di gesso del Cretaceo (1968, Francia), un'iscrizione in un blocco di marmo estratto ad una profondità di venti metri (1830, Filadelfia). "Certamente" - scrivono gli autori in merito a tali episodi - "si tratta di prove molto bizzarre, corredate di pochissime prove. Ma sono storie che circolano e ci chiediamo quante ne stiano circolando, e se qualcuna possa essere vera".
Ampia attenzione viene invece dedicata ad una estesa casistica, la cui documentazione comprende anche i pareri di eminenti scienziati e le relazioni pubblicate in prestigiose riviste o presentate in occasioni di congressi ufficiali. Una prima sezione è riservata ai ritrovamenti aventi per oggetto ossa incise o spezzate in modo non naturale, risalenti al Pliocene, al Miocene ed a periodi ancora più remoti. Vengono poi esaminati i casi di ritrovamenti di "oggetti in pietra di fabbricazione insolitamente antica", e quelli relativi ai resti di scheletri umani "anomali".
Naturalmente, data la complessità delle argomentazioni, qui ci limitiamo soltanto ad accennare ad alcuni dei casi più interessanti descritti (tra questi alcuni venuti alla luce in Italia), rinviando per ogni approfondimento alla lettura del libro. Quella reperibile in italiano, è peraltro un'edizione ridotta: una scelta voluta dagli autori per non appesantire il lettore con le analisi geologiche e gli studi specialistici, riportati invece nell'edizione integrale in inglese (ricca di oltre novecento pagine).
L'opera di recupero delle "prove sepolte" parte da St. Prest (Francia nordoccidentale), dove nel 1863 Jules Desnoyers, del Museo Nazionale Francese, nota segni incisi su un frammento di tibia di rinoceronte non imputabili ad agenti naturali. Desnoyers scoprirà che anche i fossili esposti presso il Museo di Chartres e presso la Scuola mineraria di Parigi presentavano le stesse incisioni, spiegabili, come sosterranno anche vari paleontologi, soltanto con l'azione volontaria di un essere umano. Un'ipotesi che forse sarebbe apparsa ovvia, se non fosse che il sito degli scavi di St. Prest appartiene al tardo Pliocene, epoca in cui per l'archeologia ufficiale, viene spiegato, "la presenza di esseri capaci di fare un uso sofisticato di oggetti in pietra risulterebbe quasi impossibile"! La scoperta non mancherà di provocare accese polemiche - l'ipotesi di Desnoyers, come del resto viene onestamente riportato, sarà contestata da vari archeologi - e alla fine tale ritrovamento finirà per cadere nell'oblio. Eppure a tutt'oggi nessuna prova definitiva che possa escludere l'azione di esseri umani sarebbe stata presentata, e per gli autori "non esistono sufficienti motivi per rifiutare categoricamente queste ossa come prova della presenza umana nel Pliocene". Perché, si chiedono commentando la scoperta di Desnoyers, di tali reperti non si parla nei libri di archeologia? Per la risposta a questo interrogativo, vengono riportate le parole di Armand de Quatrefages, membro dell'Accademia della Scienza francese e professore al Museo di Storia naturale di Parigi, per il quale "le obiezioni sollevate contro l'esistenza di esseri umani nel Pliocene e nel Miocene sembrano di norma collegate a considerazioni teoriche più che all'osservazione diretta"3.
Alle stesse conclusioni si arriverà per tante altre scoperte "anomale" avvenute in Inghilterra, Grecia e Italia, che non necessariamente ci riportano all'Ottocento o all'inizio del Novecento. Un caso recente, siamo nel 1970, ha per scenario il Nord America: ossa di cervidi, che per lo scopritore Richard E. Morlan, dell'Istituto di Ricerche Archeologiche del Canada e del Museo Nazionale Canadese dell'Uomo, mostrerebbero chiari segni di intervento intenzionale umano anteriori al processo di fossilizzazione, sono state rinvenute in un uno strato geologico databile fino a ottantamila anni. Ancora una sfida quindi alle teorie ufficiali sull'origine dell'uomo nel continente americano...
Ancora più ampia è la sezione relativa ad utensili ed armi in pietra. Tali ritrovamenti, spesso corredati da una grande quantità di prove, furono numerosissimi nei decenni successivi alla pubblicazione dell'Origine delle specie di Darwin e, viene sottolineato, per decenni sono stati oggetto di discussione nei congressi scientifici, finché "intere categorie di dati sono scomparsi dalla scena".
Rinvenimenti contrastanti con le teorie ufficiali sull'evoluzione umana sarebbero state fatte anche negli ultimi decenni in Pakistan, Siberia, India, Usa, Messico. Ma il copione sembrerebbe essere sempre lo stesso: le scoperte in grado di mettere in discussione le teorie dominanti sull'evoluzione verrebbero ancora oggi sistematicamente soppresse. Ciò si sarebbe verificato soprattutto per i ritrovamenti di scheletri umani "anomali", cioè rinvenuti in contesti geologici incredibilmente antichi, anch'essi tutt'altro che rari pure nel ventesimo secolo. "Benché queste ossa umane abbiano attratto inizialmente un notevole interesse" - viene osservato - "sono praticamente sconosciute. La maggior parte della letteratura corrente fornisce l'impressione generale che, dopo la scoperta del primo Neanderthal nel decennio 1850, non si siano verificate scoperte significative di scheletri fino al ritrovamento dell'Uomo di Giava successivo al decennio 1890".
Nella rassegna relativa ai resti di scheletri umani, si va dal "femore di Trenton" (New Jersey), rinvenuto in uno strato risalente al periodo interglaciale (centomila anni), allo scheletro rinvenuto a Gallery Hill (nei pressi di Londra) in un deposito risalente a oltre trecentomila anni fa. Soprattutto quest'ultimo caso darà vita a pareri discordanti (la maggior parte degli archeologi sosterranno che lo scheletro sia stato sotterrato recentemente). Ma come viene osservato, le prove fornite in questo caso, come del resto in molti altri, non sono sufficienti a risolvere i dubbi. Tra i reperti anomali, la cui natura apparirebbe invece molto meno discutibile, troviamo teschi, orme, vertebre, mentre gli autori fanno solo un accenno a quelle che vengono definite "anomalie estreme".
"E' davvero piuttosto curioso" - questo il commento di Cremo e Thompson - "che tanti ricercatori scientifici del diciannovesimo secolo e dell'inizio del ventesimo secolo abbiano riportato indipendentemente e ripetutamente di segni su ossa e conchiglie del Miocene, del Pliocene e del primo Pleistocene che indicano segno di interventi umani. [...] Tutti questi scienziati si sbagliavano? Forse. Ma i segni di tagli su ossa fossili sono un oggetto davvero strano su cui sbagliarsi, un soggetto ben poco romantico o ispirante". Se poi non si avrà ulteriore notizia di scoperte del genere, viene spiegato, non sarà perché non si siano presentati nuovamente episodi simili, ma semplicemente perché nessuno scienziato si azzarderà più a parlare di ritrovamenti "anomali": "Se si accetta l'esistenza di tali prove nel passato, viene da chiedersi come mai non se ne trovino più oggigiorno. La risposta, un'ottima risposta, è che nessuno le cerca. [...] Se un paleoantropologo è convinto che nel medio Pliocene non potevano esistere esseri umani capaci di fabbricare attrezzi, è assai poco probabile che rifletta sull'esatta natura dei segni che appaiono sulle ossa fossili di quel periodo".
Gli interrogativi si fanno ancora più inquietanti quando gli autori, nella seconda parte del volume, passano ad analizzare le "prove" sulle quali l'archeologia ha invece fondato il proprio impianto teorico ed in particolare la teoria evolutiva ufficiale. Una teoria che per Cremo e Thompson presenterebbe molte ombre, anche per mancanza di prove definitive, e che viene giudicata inadeguata a spiegare troppi aspetti ed interrogativi, che tuttora non troverebbero risposta.
A questo riguardo, alcune considerazioni ci sembrano comunque opportune. Attorno all'evoluzionismo, il dibattito oggi è quanto mai aperto, anche per la diffusione che in questi ultimi tempi stanno registrando le teorie creazioniste. Di certo fino a pochi anni fa sarebbe stata impensabile la notizia, accolta con comprensibile clamore dalla stampa, che in uno degli Stati Uniti si è arrivati a proibire l'insegnamento dell'Evoluzionismo nelle scuole. Insomma, siamo ben consapevoli di quanto sia difficile addentrarsi su tale terreno. Ma negli ultimi tempi anche all'interno del mondo scientifico molti scienziati hanno posto la necessità di rimettere in discussione se non altro alcuni aspetti della teoria evolutiva. Se fino a poco tempo fa negli ambienti accademici era impossibile anche soltanto accennare a mettere in dubbio alcuni assunti secondari, oggi il clima sembra essere cambiato. Prova ne è la pubblicazione di una lunga serie di volumi, dove si arriva a proporre il superamento di alcuni punti salienti del darwinismo. Ed è proprio in riferimento al dibattito interno all'evoluzionismo, che il libro di Cremo e Thompson è forse tanto più attuale. Sia per l'esigenza, ribadita con forza, di un dibattito e un confronto libero e a tutto campo. Sia perché rispetto a posizioni "intransigenti" (la critica creazionista), gli autori, pur non nascondendo di riconoscersi in una precisa visione religiosa - quella vedica - per la quale l'esistenza dell'uomo sarebbe molto più antica di quanto asserito dalla scienza ufficiale4, si limitano ad avanzare l'ipotesi che "esseri umani ed esseri scimmieschi esistono contemporaneamente da lungo tempo", non addentrandosi sul problema specifico delle origini.
Tale prospettiva, almeno in parte, non è incompatibile con alcuni dei nuovi orientamenti che stanno emergendo all'interno delle correnti evoluzionistiche che, rifiutando la teoria monogenetica e lineare dell'evoluzione, propendono invece per l'ipotesi di una linea evolutiva non univoca, una prospettiva che non esclude la compresenza di più specie nello stesso periodo5.
In questa opera Cremo e Thompson non hanno comunque la pretesa di formulare una compiuta teoria alternativa, un obiettivo questo che, come viene spiegato, sarà oggetto di un secondo lavoro, e va riconosciuto che le convinzioni degli autori non hanno condizionato l'esposizione dei tanti casi presentati nel libro. E come spiega nella prefazione E. Johnson (autore di Processo a Darwin), "alla fine, l'importante non è perché i ricercatori erano motivati a cercare un tipo di prove, ma se hanno trovato qualcosa che valga la pena di riportare e che possa valere la seria considerazione della comunità scientifica".
Dall'analisi delle prove e delle relazioni scientifiche, emergerebbe come in molti casi le conclusioni alle quali sono arrivati numerosi archeologi ortodossi, sarebbero state tratte in modo decisamente discutibile, sulla base di analisi inadeguate o di una interpretazione dei dati forzata. All'indomani della pubblicazione dell'Origine delle specie, l'obiettivo era stato quello di fornire ad ogni costo prove a sostegno della teoria di Darwin, e soprattutto in grado di screditare le altre posizioni. Cremo e Thompson spiegano infatti come alla fine dell'Ottocento quella di Darwin non fosse l'unica teoria sull'evoluzione, ma come esistessero concezioni differenti. In particolare, molti archeologi accettavano l'idea che l'uomo moderno avesse fatto la propria comparsa in tempi molto più remoti di quanto non sostenga oggi l'archeologia ufficiale. L'antropologo Frank Spencer scrive per esempio: "dalle prove accumulate sotto forma di scheletri, sembra che il tipo di scheletro umano si possa far risalire molto addietro nel tempo, un fatto evidente che ha portato molti ricercatori ad abbandonare o a modificare le loro opinioni sull'evoluzione umana. Uno di questi apostati fu Alfred Russel Wallace"6. Proprio la posizione di Wallace che, come viene sottolineato, condivide con Darwin l'elaborazione della teoria dell'evoluzione attraverso la selezione naturale, rappresentava però per lo stesso Darwin la peggiore delle eresie. La maggiore critica al darwinismo, era costituita dalla mancanza di prove fossili dell'evoluzione umana, ma ecco che nell'ultimo decennio dell'Ottocento viene annunciata la tanto attesa scoperta dell'anello mancante, la prova della specie che testimoniava il passaggio dall'uomo alla scimmia: l'uomo di Giava, battezzato dallo scopritore, Eugene Dubois, "Pithecanthropus" (nome formato dalle parole greche indicanti "scimmia" e "uomo"). Tale scoperta contribuirà all'affermazione della teoria di Darwin, ma soprattutto a far perdere terreno alle altre, a partire da quella di Wallace. Ma fin da subito era stata giudicata priva di fondamento da molti studiosi, per i quali non poteva esserci la certezza che i resti rinvenuti a Giava potessero far pensare all'esistenza di un essere avente in parte caratteristiche scimmiesche ed in parte umane. Nel corso degli scavi Dubois aveva in particolare rinvenuto un resto di calotta cranica, in un primo tempo addebitata ad una scimmia antropomorfa, e un femore fossilizzato di tipo umano. Nella relazione ufficiale Dubois, cambiando tra l'altro il proprio parere, ipotizzerà che i due resti appartenevano allo stesso essere, che chiamò appunto Pithecanthropus. Ma non ci sarebbe alcuna prova dell'appartenenza dei due frammenti allo stesso essere e non invece a due esseri distinti. Tanto più che il femore era stato rinvenuto a tredici metri dal resto di calotta cranica! Lo stesso Dubois in seguito si ricrederà e molti antropologi sconfesseranno tale ipotesi. In ogni caso, infine, il risultato sarà raggiunto: per il mondo intero l'anello mancante, la prova tanto attesa, era stata trovata.
La storia dell'archeologia ufficiale non manca di essere caratterizzata anche da falsi clamorosi, come dimostra la storia di Piltdown. All'inizio del Novecento viene annunciata da Charles Dawson, membro della Società Geologica, una strabiliante scoperta: il ritrovamento a Piltdown (Sussex) di un teschio umano con mascella da scimmia. La notizia susciterà come comprensibile grande eccitazione. Ma fin da subito fu vista con sospetto da numerosi archeologi. Si scoprirà ben presto che il teschio era il frutto di una manipolazione. In questa vicenda ci troviamo di fronte non ad errori involontari, ma ad una vera e propria truffa. Il problema più generale, viene evidenziato, è rappresentato dai tanti episodi in cui le conclusioni discutibili o errate a cui arrivano gli archeologi, non sono frutto di malafede, ma sono prodotte dalle loro convinzioni. Forti condizionamenti, per dire di un altro aspetto analizzato nel libro, possono essere esercitati anche dalle stesse fondazioni che finanziano le ricerche: quelle condotte in Cina da Davidson Black sull'Uomo di Beijiling, si sarebbero svolte "all'interno del ben più ampio scenario dello scopo esplicitamente dichiarato della Fondazione Rockefeller, che rifletteva lo scopo implicito della grande scienza: il controllo del comportamento umano da parte degli scienziati".
Interessante è pure l'analisi di Vayson de Pradenne tratta da Fraudes Archéologiques (1925): "Si trovano spesso degli uomini di scienza posseduti da idee preconcette i quali, pur senza commettere vere e proprie frodi, non esitano a presentare i fatti osservati in modo da canalizzare l'attenzione altrui nella direzione che concorda con le loro teorie". Così per de Pradenne ci troviamo non di rado di fronte a "una vera e propria truffa nella presentazione stratigrafica dei reperti, una truffa causata dalle sue idee preconcette, ma eseguita più o meno coscientemente da un uomo in buona fede che nessuno definirebbe un imbroglione. E' un caso che si è verificato spesso".
Secondo Cremo e Thompson, reperti interpretati in modo errato sarebbero presenti nei musei di tutto il mondo: "Anche se, considerati separatamente, questi casi di filtraggio delle conoscenze sembrano poco importanti, l'effetto cumulativo è travolgente e riesce a distorcere e ad oscurare radicalmente il quadro delle origini e dell'antichità dell'uomo".
"Forzature" nell'analisi dei fossili a parte, la teoria evolutiva proposta dalla scienza ufficiale si reggerebbe in piedi soprattutto grazie ad una sistematica eliminazione dei dati "scomodi": "Questa gratuita eliminazione di prove, prove sostenute da ricerche solide e valide quanto quelle che sostengono tutte le scoperte attualmente accettate, rappresenta una truffa perpetrata da scienziati che desiderano promuovere uno specifico punto di vista. Questa digressione dalla verità non sembra il risultato di un complotto organizzato deliberatamente [...] ma piuttosto del risultato inevitabile dei meccanismi sociali di filtraggio del sapere che sono in atto nell'ambito della comunità scientifica".
Sta di fatto, come ben spiega Phillip E. Johnson, che Cremo e Thompson dimostrano come ci si trovi di fronte ad un "doppio criterio di valutazione" dei reperti da parte dell'archeologia ufficiale: "I reperti degli esseri umani o dei loro attrezzi vengono accettati e riconosciuti se rientrano nei modelli ortodossi dell'evoluzione umana, mentre reperti altrettanto validi, che però non rientrano nel modello preconcetto, vengono ignorati o addirittura distrutti".
"Tali scoperte" - sottolinea ancora Johnson - "scompaiono ben presto dalla stampa e nel giro di poche generazioni diventano invisibili. Di conseguenza, è praticamente impossibile che teorie alternative sulla storia dei primi esseri umani ottengano qualche riconoscimento. Le prove stesse che potrebbero sostenerle non sono più reperibili e non possono più essere valutate".
Se questo è vero per i decenni passati, oggi nuovi ritrovamenti starebbero mettendo in crisi l'intero impianto teorico ufficiale. Il libro si conclude non a caso con una panoramica sulle ultime scoperte avvenute nel continente africano, oggetto peraltro di accese dispute. In anni recenti l'archeologia ha registrato prese di posizione anche clamorose, attraverso le quali archeologi e paleontologi hanno rimesso in discussione quelli che fino a poco tempo fa erano dei veri e propri tabù inviolabili. Ampia risonanza ha avuto per esempio sui mezzi di comunicazione l'ipotesi che tende ad escludere l'uomo di Neanderthal dalla linea evolutiva dell'uomo7.
Secondo Archeologia proibita ben altre certezze verrebbero a crollare, tanto che si arriva a contestare la legittimità dell'inclusione nella linea evolutiva anche dell'Astrolopithecus e dello stesso Homo Habilis.
Certamente si tratta di ipotesi di fronte alle quali è comprensibile un atteggiamento di scetticismo se non di incredulità. Ma dalle argomentazioni esposte nella critica alla conduzione delle ricerche e ai metodi "discutibili" con cui la scienza è arrivata a definire tanti principi, emerge come una buona dose di prudenza si possa fondatamente avere anche rispetto ai risultati dati per sicuri nei manuali e nei libri scolastici. A rafforzare la necessità di un atteggiamento maggiormente problematico, sono poi gli stessi commenti di archeologi ufficiali. Il giudizio di Pat Shipman, rispetto alla "confusa relazione tra le specie discendenti", è emblematico:
"Potremmo affermare che non abbiamo assolutamente nessuna prova sull'origine dell'Homo e così togliere tutti i membri del genere Australopithecus dalla famiglia degli ominidi... Provo un'avversione così viscerale a questa idea che sospetto di non essere in grado di valutarla razionalmente. Sono stata educata sulla base della nozione che l'Australopithecus è un ominide".
"Ecco" - questo il commento degli autori - "una delle affermazioni più oneste che abbiamo mai sentito da uno scienziato 'ufficiale' implicato nella ricerca paleoantropologica".
Una delle "anomalie" più sconcertanti venute alla luce in Africa è rappresentata dalle orme impresse su di uno strato di ceneri vulcaniche vecchie di 3,8 milioni di anni, scoperte nel 1979 a Laetoli (Tanzania Settentrionale). Orme che sembrerebbero chiaramente prodotte da ominidi. Tali reperti sono stati analizzati in un articolo pubblicato dal National Geographic in cui l'autrice, Mary Leakey, riporta le parole di Luise Robbins, esperta di impronte dell'Università del North Carolina: "hanno un aspetto troppo umano, troppo moderno, per essere state trovate in un tufo così antico". "Noi siamo comunque rimasti sorpresi di incontrare un'anomalia così evidente" - è il commento degli autori a questo caso - "nell'ambito insospettabile degli annali più recenti della ricerca paleoantropologica ufficiale. Quello che ci ha veramente sconcertato è stato vedere che scienziati di fama mondiale, i migliori della loro professione, erano capaci di osservare queste impronte, descrivere le loro caratteristiche umane, e ignorare la possibilità che le creature che le hanno lasciate potessero essere umane come noi. Evidentemente la loro corrente mentale influisce nei normali canali precostituiti".
Ma se sono sempre più numerosi gli scienziati che si rendono conto della necessità di riaprire la discussione sulle tante incongruità e sulle contraddizioni esistenti, l'atteggiamento scelto ancora oggi dalla scienza ufficiale è immutato: i dati "scomodi" si ignorano o si arriva alla soppressione delle prove. Cremo sottolinea che quando parla di soppressione delle prove, non si riferisce certo all'azione di un gruppo di "scienziati cospiratori" ma, come abbiamo visto, più semplicemente ad un "normale procedimento sociale di filtraggio della conoscenza".
Archeologia proibita è innanzitutto una denuncia dell'esistenza di un procedimento che, "apparentemente innocuo", alla lunga finisce per avere un "notevole effetto cumulativo". Al di là dei contenuti espressi, uno dei meriti maggiori del libro è proprio quello di far riflettere sull'esistenza di tale meccanismo, che appare ancora più rilevante se si parte da una consapevolezza. E cioè che i presupposti e le certezze sulle quali si basa l'archeologia, ed in particolare il darwinismo, più di quanto non valga per altre discipline, costituiscono le fondamenta dell'impianto teorico dell'intera scienza e dell'attuale visione del mondo.
In un articolo pubblicato ne Le Scienze8 - in cui si rifletteva su quale fosse il pensiero che più di ogni altro ha finito per condizionare la visione del mondo che l'uomo si porta con sé nel terzo millennio - è stato ben evidenziato proprio come: "da Darwin (piuttosto che Einstein, Marx, Freud ndr) dipende in larga misura la moderna concezione del mondo".
Si comprende allora quanto la difesa dell'ortodossia in questo campo assuma un'importanza che supera i confini della disciplina stessa e come accettare di rimettere in discussione anche solo alcuni aspetti, possa rappresentare un fatto ben più destabilizzante di quanto apparentemente si possa immaginare. E se un atteggiamento di chiusura può essere comprensibile quando ci si trova di fronte a teorie fantasiose e tutt'altro che basate su presupposti solidi, il rifiuto di discutere e confrontarsi su reperti o prove documentate, magari anche con il solo intento di confutare interpretazioni considerate prive di fondamento, non è accettabile. E gli interrogativi posti da Cremo e Thompson "perché ci si rifiuta di prendere in considerazione certe scoperte?"; "perché non se ne discute?", ci sembrano interrogativi più che legittimi. [...] --------------------------------------
Titolo originale: The Hidden History of the Human Race, Bhaktivedanta Book Trust-International, 1996.
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Inserito il - 09/01/2006 : 00:56:22
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E questa una breve recensione di Mauro Quagliati (fonte: http://mmmgroup.altervista.org/i-jacopo.html )
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Archeologia Proibita, la storia segreta della razza umana, degli statunitensi Michael A. Cremo e Richard L. Thompson (l’opera originale è un trattato di 900 pagine, ultimato nel 1994 e dedicato agli addetti ai lavori; successivamente è uscita una versione ridotta rivolta al vasto pubblico, pubblicata quest’anno dal Gruppo Editoriale Futura). Dopo otto anni di ricerca nella letteratura scientifica dell’ultimo secolo e mezzo, M.Cremo dimostra che LA TEORIA DELL'EVOLUZIONE dell’Homo Sapiens (comparso negli ultimi 300.000 anni) a partire da ominidi scimmieschi africani di 4 milioni di anni fa E' DEL TUTTO INFONDATA. Al contrario, decine di reperti in tutti i continenti testimoniano la presenza di uomini anatomicamente moderni in ere di molto antecedenti al Pliocene, cioè da circa 2 milioni di anni fa fino a 50 milioni di anni fa (e oltre).
Tali scoperte avvennero con particolare frequenza nella seconda metà dell’800, in ogni parte del mondo, da parte di numerosi scienziati dell’epoca, aspramente criticati per l’incapacità della casta scientifica dominante di accettare la reale antichità della razza umana. I rapporti riferivano di utensili di varia fattura, tracce dell’uso del fuoco, scheletri di Homo Sapiens ritrovati in località della Francia, dell’Inghilterra, dell’Italia, delle Americhe, in posizioni stratigrafiche antichissime, accuratamente documentate dai geologi. Tra i sostenitori delle teorie "eretiche" troviamo addirittura l’evoluzionista Alfred R. Wallace e il celebre Louis Leaky (che in seguito cambiò idea per motivi di finanziamento alle sue ricerche).
La convinzione dogmatica che l’uomo si fosse sviluppato soltanto nel Pleistocene (negli ultimi 2 milioni di anni) era già popolare nel secolo scorso, nel clima di entusiasmo suscitato dalla nuova teoria dell’evoluzione di Darwin. Poi, alla fine dell’800 e all’inizio del 900, con la scoperta dell’Homo Erectus a Giava e nell’estremo oriente, si decise arbitrariamente che la linea del genere Homo era iniziata 1,5 milioni di anni fa. Oggi, questo concetto è talmente radicato che non può più essere criticato. Negli ultimi 150 anni, scoperte "anomale" che contraddicevano la cronologia ufficiale sono state violentemente attaccate e respinte dalla comunità scientifica: si mette in dubbio la reale posizione stratigrafica dei reperti, non vengono riconosciute le caratteristiche anatomiche, si insinuano dei sospetti sulla serietà dei ricercatori coinvolti, fino al loro licenziamento o diffamazione.
Al contrario i reperti accolti come ufficiali sono stati spesso disseppelliti in superficie, in condizioni poco chiare, componendo arbitrariamente dei pezzi anche appartenenti a specie diverse. Questo è successo con l’Uomo di Giava, con l’Homo Habilis (che è una pura invenzione degli antropologi) e con il nostro presunto antenato più antico, l’Australopitecus, i cui vari rami sono talmente confusi da non sapere più chi discende da chi. La mitica Lucy era poco più che una scimmia antropomorfa, che per la struttura ossea e l’alluce opponibile era adatta alla vita sugli alberi, e non alla stazione eretta. Non furono certo esemplari della sua specie, Australopitecus Afarensis, a lasciare le famose impronte di Laetoli in Tanzania che sono indistinguibili dall’orma di un piede umano odierno e risalgono a 3,6 milioni di anni fa.
Il libro di M.Cremo contiene tutte le referenze bibliografiche necessarie a ricostruire la vera storia occultata dell’umanità, e ritengo che, in un qualche futuro, diventerà il punto di partenza per una radicale rivoluzione archeologica.
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